Rimandando l’importanza di una virtù, quella della pazienza, ormai quasi dimenticata; oggi giorno non si riconosce più alcun valore alla pazienza, nonostante essa sia essenziale nei rapporti interpersonali e di grande efficacia nella quotidianità.
Nell’epoca della velocità e del “tutto e subito”, l’attesa è una delle condizioni vissute con maggior disagio.
È chiaro che ogni situazione è a sé, ovvero ci sono circostanze in cui il disagio è comprensibile poiché l’attesa è legata ad eventi drammatici e dolorosi, come la malattia o l’esito di un esame diagnostico, ma spesso si vivono con insofferenza anche momenti di routine quotidiana, in cui piuttosto che lasciarsi dominare dall’ansia e dal nervosismo, potrebbe essere utile approcciarsi a quella “pausa” in maniera diversa, cogliendola come un’opportunità per osservarsi, ascoltarsi e scoprire, delle volte, aspetti di sé che non saremmo riusciti a vedere in preda all’impazienza e all’agitazione.
In questi casi, appunto, il segreto sta proprio in questo: nella capacità di resistere alla tentazione di riempire a tutti i costi il “vuoto” che quell’attesa comporta; parliamo della dimensione del “non fare”, del “non intervenire”, della capacità di osservare ed osservarsi senza aspettative e idee preconcette. Solo in questo modo potremmo trasformare un momento di stasi, in un atto di attenzione verso noi stessi.
Fermarsi non vuol dire “non muoversi”, ma muoversi meglio, poiché anche un’attesa apparentemente fastidiosa può favorire una riflessione utile ad un nostro miglioramento.
Definiamo la dimensione dell’attesa.
Letteralmente, la pazienza è “la facoltà umana di rimandare la propria reazione alle avversità, mantenendo nei confronti dello stimolo un atteggiamento neutro. È la necessaria calma, costanza, assiduità, applicazione senza sosta nel fare un’opera o una qualsiasi impresa”.
Essere pazienti vuol dire quindi “saper aspettare”, attendere silenziosamente, ma in maniera attiva che la vita ci chiami a svolgere compiti per i quali abbiamo avuto il tempo di prepararci o a degli incontri significativi che richiedono di essere vissuti in profondità e con consapevolezza. “Attendere” deriva dal latino “ad tendere” che significa infatti “distendersi”, ovvero, in senso lato, “volgere ad un termine, aspirare”.
Non parliamo quindi di rassegnazione o passività, ma piuttosto della capacità di gestire le situazioni più disparate con lucidità, senza perdere la calma, adottando un atteggiamento costruttivo. L’eclissi della pazienza è dovuta infatti anche ad un errore di interpretazione: spesso essa viene confusa con l’inerzia, la sconfitta, la resa passiva. Al giorno d’oggi si è portati a credere che il tempo meriti di essere vissuto solo se adrenalinico: il rischio, in amore così come nella professione, è che tale velocità ci porti a compiere errori di valutazioni enormi, spingendoci magari a chiudere una relazione che avremmo potuto salvare o a compiere azioni impulsive che fondamentalmente non corrispondono al nostro modo di essere. I mass media spesso non sono di aiuto in questo senso, poiché non di rado propongono prototipi di successo immediato che fungono da modello per molti giovani, facendo passare il messaggio che si possa ottenere ciò che si desidera senza alcuno sforzo.
Vegetare sperando che qualcosa di straordinario possa stravolgere improvvisamente la propria vita … ecco … questo non ha nulla a che fare con la vera essenza dell’attesa, quella che richiede consapevolezza e costanza, per scoprire le proprie potenzialità e coltivare i propri talenti, o per dare modo ad un’intuizione, un progetto, un sentimento, di prendere forma.
Un interessante studio inglese ha calcolato il limite massimo di attesa: che si tratti di un call center o del cameriere al ristorante, in media, si perde la pazienza dopo soli 8 minuti e 22 secondi. Al computer, la soglia di sopportazione si abbassa ulteriormente: si è dimostrato infatti che se si aspetta più di 1 minuto per un download, l’umore inizia ad alterarsi, raggiungendo il picco dopo 5 minuti e 4 secondi di attesa.
Tali risultati sono indicativi del fatto che nella società attuale, la giusta percezione del tempo ha subìto un cambiamento radicale, portandoci ad essere più veloci e reattivi, costantemente proiettati al futuro, sempre ansiosi per delle scadenze in arrivo o per degli impegni da rispettare.
L’incapacità di attendere, a cui spesso fa seguito il continuo passare da un’esperienza all’atra, spesso cela un problema di fondo ossia la tendenza ad annoiarsi facilmente, riscontrabile, in genere, in ambiti diversi:
Il risultato della “noia facile” è un senso di insoddisfazione generale che spinge a cercare cose ed emozioni sempre nuove, in un circolo vizioso fatto di entusiasmi appena assaporati e ricerca affannosa del “nuovo”.
Ne consegue che “saper aspettare” è una virtù che premia la personalità di chi la detiene, ragione per cui sarebbe bene coltivarla e alimentarla sin dall’infanzia.
La pazienza non è certamente un valore dei bambini, ma è un valore che i bambini possono apprendere: di fatto, più si è piccoli, meno capaci si è di aspettare, si pensi al neonato che quando ha fame smette di piangere solo se la mamma provvede subito a soddisfarlo. Ciò non esclude che con il tempo ed una buona educazione (fatta anche, e non solo, di buoni esempi, allenamento all’autocontrollo e rispetto delle regole), i bambini possano apprendere ed apprezzare il valore dell’attesa riflessiva.
Un interessante esperimento di psicologia comportamentale condotto per la prima volta nel 1972 da Walter Mischel dell’Università di Stanford, ha messo a dura prova un gruppo di bambini di 4 anni a cui veniva richiesto di resistere alla tentazione di mangiare un marshmallow: lo sperimentatore, dopo averli condotti uno alla volta in una stanza, spiegò loro che se fossero stati in grado di non mangiare il marshmallow in sua assenza, al suo rientro avrebbe concesso loro di mangiarne degli altri. I video dell’esperimento evidenziano come alcuni bambini, seppur con difficoltà, siano in grado di resistere alla tentazione attraverso una serie di strategie (annusare il dolcetto, coprirsi il volto con le mani, concentrarsi ad occhi chiusi, ecc.), mentre altri non riescono a trattenersi.
Negli anni successivi all’esperimento originario, l’autore monitorò i bambini sottoposti al test, valutando la loro personalità, il loro carattere e il loro rendimento scolastico, scoprendo che chi era riuscito a resistere alla tentazione-marshmallow attraverso il pensiero, aveva ottenuto migliori risultati a livello scolastico, era capace di gestire lo stress e di pianificare il proprio tempo; al contrario, gli “impazienti” erano divenuti adulti più insicuri, meno capaci di concentrarsi, di controllare i propri impulsi e di mantenere le proprie amicizie.
Questo esperimento non misura solo il grado di autocontrollo, ma soprattutto la capacità di trovare la soluzione ad un problema che ci si trova a dover affrontare, resistendo alla tentazione di cedere ad una gratificazione immediata e temporanea, in vista di qualcosa di più appagante e duraturo che può essere raggiunto attraverso il controllo dei propri pensieri e la pianificazione delle proprie azioni.
Come riappropriarsi della capacità di attendere?
Il presupposto di base è rinunciare alla pretesa di ottenere “tutto e subito”. Ma come?
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